venerdì 4 gennaio 2013

Conclusione

A volte può sembrare difficile, distinguere quale sia la realtà. Sempre che si tratti di doverla distinguere, piuttosto che di definirla.

Sono sospeso sopra il vuoto.

Quel dio greco da una parte. Un dio orgoglioso del suo canto d’amore, ma ignaro del finale di chi non ha saputo comprendere.

Dall’altro non solo ogni singolo sasso ha la sua storia, ma dove anche ogni passo ne racconta e ne intreccia di nuove.

C’è l’accesso caldo, e accogliente, che ricorda idee in contrasto, che echeggia di rabbia, lacrime di rassegnazione e incomprensioni.

Ci sono mondi pseudo-reali, con le loro fonti di nozioni immediate, che mi aiutano a procedere più spedito nelle mie curiosità; dove transitano esistenze condivise con essenze che, ideologicamente, potrebbero ritenersi più vicine, ma che probabilmente non ne hanno neppure la consapevolezza.

Ma lo stato più piacevole, è quello nell’evanescenza dei pensieri, dei sogni e delle speranze.

Anche se l’ombra di orribili mostri, a volte mi paralizza, mi raggela e mi strazia, ci sono anche larghi e profondi piaceri, ci sono abbracci e profumi inebrianti.

Decisamente piaceri in sovrabbondanza, rispetto a quelle terribili ombre di mostri. Quanto basta per non caderne vittima.

Cose







Sono gemme preziose delle prime ore che appaiono opache e meno splendenti con l’abitudine. Invece di lucidarle ne vogliamo delle nuove.

Desideri appagati e dimenticati.

Eppure la loro essenza non è mutata, giace solo celata dietro un velo di assetata inutile bramosia. Desiderare è buono. Desiderare e ottenere ci porta a desiderare qualcosa d’altro.

“Vale anche per i sogni? In fondo desiderare è una specie di sogno, quindi potrei anche pensare, che realizzare un sogno ci porterebbe ad esprimerne nuovi.”

“Certo. Non vorresti trascorrere la tua eternità con un unico stesso sogno.”

“Ma è buona cosa o non è buona cosa?”

“Non esiste cosa buona e cosa non buona, esistono solo cose.”

“… facile dimenticarsene…” – sussurro.

“Ma fai in fretta a ricordarlo e te lo riporti alla mente.”

“Grazie a te!”

“Sempre grazie a te. Ricordi? Sei tu che ti dai le risposte.”

“Ma allora perché mi farei così tante domande?”

“Perché ti piace darti le risposte.”

Come davanti ad una nuova auto, appena parcheggiata nel cortile di casa, lucida, scintillante emozioni, carica di realizzazione e di prossime gioie in quell’involucro speciale, abbagliato dalla novità quasi incredula. Ogni lato viene osservato. Ogni lato viene ispezionato, per imprimerlo nella mente come un vecchio ambrotipo che ne salva l’apparenza, ritornando un’emozione quasi palpabile.

Come davanti una nuova auto osservo. Non più un punto di domanda, ma un punto esclamativo che vorrei più evanescente, che vorrei soffiare via.

!

Sembra un dito accusatore puntato, ma non lo è. è pura constatazione, è affermazione, è esclamazione.

“Sono così egocentrico?”

“Trovi sia un atteggiamento egocentrico? Non preferisci vederlo come un percorso più incisivo per  giungere dove vuoi andare?… O fuggire da dove vuoi fuggire? Non preferisci vederla come una migliore possibilità di analizzare?

Ti arrabbieresti se ti parlassi in modo duro? No, non lo faresti. Non lo faresti nello stesso modo che lo fai quando te lo dice qualcun altro. Perché? Perché sei tu stesso ad essere duro con quella parte cocciuta e testarda di te che a volte preferisce volgere lo sguardo altrove.”

Gioco e accarezzo la morbida rossa reazione, e amo quella parte di me che mi risponde. Amo quella parte di me che mi rivolge le domande. Amo quella parte di me che poggerà gli occhi su queste linee, su questi tratti, su questi cerchietti, e riuscirà a vederne lo spazio che le contiene.

Cos’è la soddisfazione? La più grande soddisfazione? È semplicemente un’emozione. Semplicemente in modo meraviglioso. Meravigliosa in modo emozionale. Emozionante in modo Divino. Divino in modo Divino.

Divine emozioni, indipendentemente da ciò che vediamo e che abbiamo sempre creduto esterno a noi, indipendentemente dalle cose, dalle persone, dai luoghi.

Con un bisturi affilato incido dove le emozioni emanano dalle cose; e le cose rimangono cose. Incido dove emanano dalle persone, e anche le persone rimangono persone, continuano ad essere le stesse persone. Incido dove emanano dai luoghi, luoghi che rimangono sempre lì dove ho sognato che siano.

Ma le emozioni… le emozioni si ravvivano all’inverosimile, illuminano il mio essere, si espandono e decidono loro stesse quali cose, quali persone, quali luoghi andare ad illuminare.

E illumino l’universo di immenso.

I sogni







Giorni, come tutti gli altri, con tanti sogni che porto gioiosamente a cavalluccio sulle spalle. Sono tanti sogni che diventano sempre più grandi e pesanti. Diventano sempre più grandi e pesanti perché non si avverano, si nutrono della giovinezza che ormai vive nei sogni di questi giorni.

Giorni. Giorni meravigliosi, terribili, che si materializzano semplicemente con la realizzazione dei sogni, perché anche ciò che non si vuole fa parte dei sogni.

“Esatto, sono proprio i tuoi sogni che rendono la tua vita meravigliosa oppure terribile.”

“Dillo a chi ha l’incubo della carestia! Dillo a quella madre che vede morire il figlio perché non ha cibo da dargli…”

“Appunto, quello è il tuo sogno. Il tuo sogno è che il loro sogno sia un incubo. Non puoi sognare una cosa senza le sue conseguenze. Non ancora almeno. In pochi sono pronti a questo. Solo tu puoi sognare la soluzione e metterla in atto.”

“Ma se già i miei sogni non si avverano! …Non tutti almeno…”

“Appunto perché il tuo sogno è che i tuoi sogni non si avverano. Prova a pensare che tutto ciò che c’è, tutto ciò che vedi, che ti succede, è l’avverarsi dei tuoi sogni… o incubi… accettalo, senti che è così. Non giudicarlo.

Solo così ti accorgi che per cambiare quelle cose non devi andare là, ma che lo puoi fare solo cambiando qualcosa qua… anche se, come sai, là e qua non esistono.”

“Da molto tempo cerco di farlo, ma non accade nulla. Sono sempre nel mio mondo utopico che si scontra con il resto.”

“Se lo hai immaginato, se lo hai sognato, allora è fattibile. Hai già messo in moto qualcosa che può aiutare a risolvere i problemi del mondo.”

“Non esageriamo! I problemi del mondo non si risolvono in questo modo: immaginando e sognando. Ci vuole azione, ci vogliono mezzi e capacità.”

“…Tutte cose che hanno quelli che non riescono a cambiarlo, insomma…”

“Bene, allora dimmi: come vuoi che realizzi veramente il mio sogno, le mie utopie? Come posso farlo?”

“Ma ti stai a sentire quando dici certe cose meravigliose?

Ti stai ad ascoltare?

Sai veramente cosa stai dicendo quando dici Sii la luce del mio ritorno?

Ti rendi conto cosa può significare essere il rapporto, la chiave matematica per la perfezione del cerchio? O quando dici Io Sono?

Qualcuno che ben conosci diceva: La mia vita è il mio messaggio! Il messaggio è la mia vita!

Quante volte hai avuto la comunione con queste cose meravigliose? E ancora non le senti tue?…”

“Certo che le sento mie…”

“Quindi? Smettila di sognare che non puoi. Sogna che puoi, solo così lo potrai.

Non pensare, o il tuo pensiero corrompe il tuo sogno. Sogna ad occhi aperti. Sogna durante la notte nel tuo drappo ciclamino del gigante buono, ma non smettere mai di vivere il tuo sogno.

Sguaina la spada e parti all’avventura. Non importa se devi tagliare un po’ qui e un po’ la. Anche molti alberi hanno bisogno di qualche taglio per crescere più rigogliosi, per dare i frutti più succosi.

Sogna il tuo mondo ideale e vivilo in ogni istante senza dubitarne. Senza esitare taglia, strappa, ripicchetta le talee, semina la nostra meraviglia.”

Amore







E poi si riaprono certe ferite.

Facile a dire di non pensarci. Si finisce comunque a pensarci. Ci si ritrova a toccare certe cicatrici che, anche se guarite, testimoniano esperienze piacevoli, bruscamente interrotte da una apparente realtà…

Questo Amore… Tanto bello e a volte tanto crudele.

Quel primo amore che molto ha punto; quel grido d’aiuto non percepito, sussurrato dall’altro capo di un filo prima di spiccare il volo dall’alto di quel monte biancoazzurro. Poi ancora il primo inganno, seguito da un secondo doloroso addio che ha tinto di stravolgimento l’intero passato.

Ancora una menzogna, blanda e non così profonda ma comunque deludente. Poi una realtà sincera abbandonata nel castello principesco. E infine un’altra, l’ultima, grande, preannunciata nuova menzogna, che ancora sprofonda nella sabbia di un’indifferenza che non ha capito, non ha creduto.

Qualche attimo di sincera noncuranza, un’anima di passaggio che sembrava riunire tante incarnazioni felici, qualche goffa fotografia. Immagini rubate all’intimità.

Solo dai miei occhi e dal mio pensiero scaturiscono questi drammi. Un disco ascoltato e riascoltato nell’illusione di strappare quei segni dal cuore, ma che in realtà non fa che approfondire i solchi delle note. Solchi che si diramano nel tronco, pronti ad accogliere semi dai quali cresce sofferenza. Quella sofferenza che invece è da sradicare come erbacce dal giardino dei fiori più belli.

Nutrire d’amore, non esserne nutriti. Ecco il mio errore…

“Ci voleva così tanto per capirlo?”

“Sai, questo è il problema. Si sanno le cose. Sappiamo benissimo come comportarci. Ma quando si vivono certe situazioni entriamo in uno stato di cecità. Uno stato che si nutre del suo stesso peccato. Uno stato che sembra stimolare un certo piacere masochistico.”

“Quindi anche tu, sai che è da masochisti soffrire per ciò che succede nel proprio quotidiano. Sai benissimo anche tu, che soffrire per le ferite del passato significa soffrire per l’eternità.”

“Certo, lo so. E questo è il peggio. Sapendolo mi limito ad osservare per non lasciarmi coinvolgere nuovamente, ma improvvisamente mi ritrovo ad essere lì, nuovamente preso…”

Si apre una voragine sotto i miei piedi. Probabilmente già c’era, perché qualcosa d’altro è sotto di me. Si tratta di un corpo morto, che mi trattiene in quell’anfratto.

È un corpo morto dal quale spunta un filo spinato che si attorciglia attorno a me. Sono spire di metallo arrugginito che si fissano al mio ventre, al mio petto. Ogni movimento mi lacera l’anima. Anche solo il guardare, scoppia come un urlo nella testa.

Rallenta il respiro. Si estirpa il filo da quel corpo morto che inesorabile cerca di trascinarmi verso un fondo senza conoscenza… potrebbe anche essere piacevole.

Immobile. Ancora di più rallenta il respiro.

Immobile. Solo gli occhi si chiudono. Solo il pensiero evade e prega.

“Togli il filo!”

“Non ci riesco, fa male.”

“Toglilo! Adesso che non ci sei e che ci sono io.”

“Ma così fa male a te…”

“Meglio a me per un attimo, che a tutti noi per l’eternità.”

Maschere







Un nuovo aspetto, sempre uno sotto molti.

Diverse espressioni, diverse parole, diversi stati d’animo, un solo Dio: Io!

Noi che scriviamo di me, di quel me di una volta che si sentiva solo, di quel me di un’altra volta, sognante su un lontano ramo sospeso sopra un mare di nebbia, di quel me stanco, dolorante, sofferente.

Un Noi pluralis maiestatis, almeno ai nostri occhi.

Ci raccontiamo, ci ascoltiamo e non ci giudichiamo.

Diverse espressioni, diverse parole, diversi stati d’animo, un solo Dio: Io!

Mi ripeto in un'altra volta, come essenza in sequenza, come nuova presenza in uno spazio che è lo stesso di prima, ma che vibra in modo diverso.

Io! Sempre io. Noi! Sempre io.

Ora burattino in balia di qualche altra volta in cui non ho saputo aprire gli occhi. Ora burattinaio, incidente con maestria in ogni minimo battito di ciglia.

Eppure sempre io, sempre noi, senza sosta e senza tregua.

Con o senza carne. Con o senza respiro, ma pur sempre con quell’amore nel cuore che unisce e separa.

Il volo







Dopo aver versato il trascinarsi disperato a carponi, quel trascinarsi senza un motivo apparente, come di inerzia, ecco che riappaiono più chiare le orme.

Dapprima vicine, unite da una diversa pesantezza, stancamente ma con scopo, passi di un ultimo sforzo… poi, pian piano, più nitide, decise e ampie. Sempre più ampie e sempre più profonde, sicure nella rincorsa per prendere il volo, un volo che anch’egli lascia una scia, una traccia ben diversa dal trascinarsi.

Una scia leggera. Un soffio. Un dolce solfeggio.

Difficile non voltarsi a guardare. Difficile resistere al magnetismo di quel vecchio segno di caduta… occorre non poca forza d’ali per non lasciarsi attrarre, per girarsi e riprendere a volare.

Volare, più in fretta, a volersi allontanare da quelle ombre non particolarmente amate, ma che comunque fanno parte della distanza percorsa verso…

Verso cosa?

Si tratta di andare verso qualcosa o semplicemente allontanarsi da un'altra? Si tratta di fuggire o cercare di raggiungere?

No! Di nuovo! Ancora semi di tarassaco che volteggiano per riunirsi a conformare quell’enorme punto di domanda…

Questa volta lo sorvolo. Plano attorno. Risalgo quella rotondità.

Lo guardo senza cercarne comprensione. Anzi mi poso nel suo culmine e mi guardo in giro. Mi rendo conto che in ogni parte posso vedere sia un punto di provenienza che un punto d’arrivo.

Mi rendo conto che ognuno di questi luoghi, è già stato in me guardandolo, ed è già stato attorno a me essendoci stato.

Mi rendo conto.

Guardo in alto le stelle in un cielo azzurro. Stelle che assumono l’intreccio di una bianca realtà a quadretti sulla quale comporre nuovamente piccoli tratti, punti, cerchietti, spazi vuoti.

Tanti spazi vuoti tra l’io ed il sono. E quel grande spazio vuoto che segue, che man mano cerco di coprire ma che non vuole finire mai, anzi sembra nutrirsi proprio dei tentativi di riempirlo.

Parole che frullano, che crescono, che si colorano, si contorcono. Parole che scorrono, che cadono da una rossa morbida reazione, che corrono quasi da sole a ricomporre pensieri, in quell’intreccio di quadretti ancora vuoti.

Pena







Ancora scivolo. Una ennesima volta lungo quella rotondità inasprita dal rifiorire di quegli steli recisi che non vogliono morire, ma anzi rafforzati or anche grigi si ergono.

Giù, a tracciar la via per il dolore a seguire. Giù sino al limite ultimo, a dondolare leggermente indeciso su come sparire. E quando sto per decidere di rimanere è proprio quando sopraggiungo diverso emule.

E il mio peso aumenta. Mi rigonfio a riflettere di più quel riflesso che sottosopra appare.

Scaccio quel peso che precipita senza portare il dolore a sparire con se. Lo lascia lì, in quella scia che scende dalla rotondità, rotta solo da alcuni immobili ostacoli. Una scia che par di lumaca la traccia, ma che evapora con tutto il tempo che trova su quella vecchia pelle.

Dentro tutto cerca di muoversi nell’ovatta della comodità usuale, ma ogni movimento stride, arrossa, come un meccanismo non lubrificato, che si surriscalda e manda l’anomala fiamma al perno, alle pulegge e alle catene, dove tutto, a sua volta, secca a portare avanti quella stupida anomalia.

Per l’urgenza, a bloccare il dilagare di quella spiacevole sensazione stacco alcune spine. Spengo gli interruttori come a spegnere l’audio inadatto di una video…

Va meglio.

… O almeno l’ho creduto…