venerdì 4 gennaio 2013

Conclusione

A volte può sembrare difficile, distinguere quale sia la realtà. Sempre che si tratti di doverla distinguere, piuttosto che di definirla.

Sono sospeso sopra il vuoto.

Quel dio greco da una parte. Un dio orgoglioso del suo canto d’amore, ma ignaro del finale di chi non ha saputo comprendere.

Dall’altro non solo ogni singolo sasso ha la sua storia, ma dove anche ogni passo ne racconta e ne intreccia di nuove.

C’è l’accesso caldo, e accogliente, che ricorda idee in contrasto, che echeggia di rabbia, lacrime di rassegnazione e incomprensioni.

Ci sono mondi pseudo-reali, con le loro fonti di nozioni immediate, che mi aiutano a procedere più spedito nelle mie curiosità; dove transitano esistenze condivise con essenze che, ideologicamente, potrebbero ritenersi più vicine, ma che probabilmente non ne hanno neppure la consapevolezza.

Ma lo stato più piacevole, è quello nell’evanescenza dei pensieri, dei sogni e delle speranze.

Anche se l’ombra di orribili mostri, a volte mi paralizza, mi raggela e mi strazia, ci sono anche larghi e profondi piaceri, ci sono abbracci e profumi inebrianti.

Decisamente piaceri in sovrabbondanza, rispetto a quelle terribili ombre di mostri. Quanto basta per non caderne vittima.

Cose







Sono gemme preziose delle prime ore che appaiono opache e meno splendenti con l’abitudine. Invece di lucidarle ne vogliamo delle nuove.

Desideri appagati e dimenticati.

Eppure la loro essenza non è mutata, giace solo celata dietro un velo di assetata inutile bramosia. Desiderare è buono. Desiderare e ottenere ci porta a desiderare qualcosa d’altro.

“Vale anche per i sogni? In fondo desiderare è una specie di sogno, quindi potrei anche pensare, che realizzare un sogno ci porterebbe ad esprimerne nuovi.”

“Certo. Non vorresti trascorrere la tua eternità con un unico stesso sogno.”

“Ma è buona cosa o non è buona cosa?”

“Non esiste cosa buona e cosa non buona, esistono solo cose.”

“… facile dimenticarsene…” – sussurro.

“Ma fai in fretta a ricordarlo e te lo riporti alla mente.”

“Grazie a te!”

“Sempre grazie a te. Ricordi? Sei tu che ti dai le risposte.”

“Ma allora perché mi farei così tante domande?”

“Perché ti piace darti le risposte.”

Come davanti ad una nuova auto, appena parcheggiata nel cortile di casa, lucida, scintillante emozioni, carica di realizzazione e di prossime gioie in quell’involucro speciale, abbagliato dalla novità quasi incredula. Ogni lato viene osservato. Ogni lato viene ispezionato, per imprimerlo nella mente come un vecchio ambrotipo che ne salva l’apparenza, ritornando un’emozione quasi palpabile.

Come davanti una nuova auto osservo. Non più un punto di domanda, ma un punto esclamativo che vorrei più evanescente, che vorrei soffiare via.

!

Sembra un dito accusatore puntato, ma non lo è. è pura constatazione, è affermazione, è esclamazione.

“Sono così egocentrico?”

“Trovi sia un atteggiamento egocentrico? Non preferisci vederlo come un percorso più incisivo per  giungere dove vuoi andare?… O fuggire da dove vuoi fuggire? Non preferisci vederla come una migliore possibilità di analizzare?

Ti arrabbieresti se ti parlassi in modo duro? No, non lo faresti. Non lo faresti nello stesso modo che lo fai quando te lo dice qualcun altro. Perché? Perché sei tu stesso ad essere duro con quella parte cocciuta e testarda di te che a volte preferisce volgere lo sguardo altrove.”

Gioco e accarezzo la morbida rossa reazione, e amo quella parte di me che mi risponde. Amo quella parte di me che mi rivolge le domande. Amo quella parte di me che poggerà gli occhi su queste linee, su questi tratti, su questi cerchietti, e riuscirà a vederne lo spazio che le contiene.

Cos’è la soddisfazione? La più grande soddisfazione? È semplicemente un’emozione. Semplicemente in modo meraviglioso. Meravigliosa in modo emozionale. Emozionante in modo Divino. Divino in modo Divino.

Divine emozioni, indipendentemente da ciò che vediamo e che abbiamo sempre creduto esterno a noi, indipendentemente dalle cose, dalle persone, dai luoghi.

Con un bisturi affilato incido dove le emozioni emanano dalle cose; e le cose rimangono cose. Incido dove emanano dalle persone, e anche le persone rimangono persone, continuano ad essere le stesse persone. Incido dove emanano dai luoghi, luoghi che rimangono sempre lì dove ho sognato che siano.

Ma le emozioni… le emozioni si ravvivano all’inverosimile, illuminano il mio essere, si espandono e decidono loro stesse quali cose, quali persone, quali luoghi andare ad illuminare.

E illumino l’universo di immenso.

I sogni







Giorni, come tutti gli altri, con tanti sogni che porto gioiosamente a cavalluccio sulle spalle. Sono tanti sogni che diventano sempre più grandi e pesanti. Diventano sempre più grandi e pesanti perché non si avverano, si nutrono della giovinezza che ormai vive nei sogni di questi giorni.

Giorni. Giorni meravigliosi, terribili, che si materializzano semplicemente con la realizzazione dei sogni, perché anche ciò che non si vuole fa parte dei sogni.

“Esatto, sono proprio i tuoi sogni che rendono la tua vita meravigliosa oppure terribile.”

“Dillo a chi ha l’incubo della carestia! Dillo a quella madre che vede morire il figlio perché non ha cibo da dargli…”

“Appunto, quello è il tuo sogno. Il tuo sogno è che il loro sogno sia un incubo. Non puoi sognare una cosa senza le sue conseguenze. Non ancora almeno. In pochi sono pronti a questo. Solo tu puoi sognare la soluzione e metterla in atto.”

“Ma se già i miei sogni non si avverano! …Non tutti almeno…”

“Appunto perché il tuo sogno è che i tuoi sogni non si avverano. Prova a pensare che tutto ciò che c’è, tutto ciò che vedi, che ti succede, è l’avverarsi dei tuoi sogni… o incubi… accettalo, senti che è così. Non giudicarlo.

Solo così ti accorgi che per cambiare quelle cose non devi andare là, ma che lo puoi fare solo cambiando qualcosa qua… anche se, come sai, là e qua non esistono.”

“Da molto tempo cerco di farlo, ma non accade nulla. Sono sempre nel mio mondo utopico che si scontra con il resto.”

“Se lo hai immaginato, se lo hai sognato, allora è fattibile. Hai già messo in moto qualcosa che può aiutare a risolvere i problemi del mondo.”

“Non esageriamo! I problemi del mondo non si risolvono in questo modo: immaginando e sognando. Ci vuole azione, ci vogliono mezzi e capacità.”

“…Tutte cose che hanno quelli che non riescono a cambiarlo, insomma…”

“Bene, allora dimmi: come vuoi che realizzi veramente il mio sogno, le mie utopie? Come posso farlo?”

“Ma ti stai a sentire quando dici certe cose meravigliose?

Ti stai ad ascoltare?

Sai veramente cosa stai dicendo quando dici Sii la luce del mio ritorno?

Ti rendi conto cosa può significare essere il rapporto, la chiave matematica per la perfezione del cerchio? O quando dici Io Sono?

Qualcuno che ben conosci diceva: La mia vita è il mio messaggio! Il messaggio è la mia vita!

Quante volte hai avuto la comunione con queste cose meravigliose? E ancora non le senti tue?…”

“Certo che le sento mie…”

“Quindi? Smettila di sognare che non puoi. Sogna che puoi, solo così lo potrai.

Non pensare, o il tuo pensiero corrompe il tuo sogno. Sogna ad occhi aperti. Sogna durante la notte nel tuo drappo ciclamino del gigante buono, ma non smettere mai di vivere il tuo sogno.

Sguaina la spada e parti all’avventura. Non importa se devi tagliare un po’ qui e un po’ la. Anche molti alberi hanno bisogno di qualche taglio per crescere più rigogliosi, per dare i frutti più succosi.

Sogna il tuo mondo ideale e vivilo in ogni istante senza dubitarne. Senza esitare taglia, strappa, ripicchetta le talee, semina la nostra meraviglia.”

Amore







E poi si riaprono certe ferite.

Facile a dire di non pensarci. Si finisce comunque a pensarci. Ci si ritrova a toccare certe cicatrici che, anche se guarite, testimoniano esperienze piacevoli, bruscamente interrotte da una apparente realtà…

Questo Amore… Tanto bello e a volte tanto crudele.

Quel primo amore che molto ha punto; quel grido d’aiuto non percepito, sussurrato dall’altro capo di un filo prima di spiccare il volo dall’alto di quel monte biancoazzurro. Poi ancora il primo inganno, seguito da un secondo doloroso addio che ha tinto di stravolgimento l’intero passato.

Ancora una menzogna, blanda e non così profonda ma comunque deludente. Poi una realtà sincera abbandonata nel castello principesco. E infine un’altra, l’ultima, grande, preannunciata nuova menzogna, che ancora sprofonda nella sabbia di un’indifferenza che non ha capito, non ha creduto.

Qualche attimo di sincera noncuranza, un’anima di passaggio che sembrava riunire tante incarnazioni felici, qualche goffa fotografia. Immagini rubate all’intimità.

Solo dai miei occhi e dal mio pensiero scaturiscono questi drammi. Un disco ascoltato e riascoltato nell’illusione di strappare quei segni dal cuore, ma che in realtà non fa che approfondire i solchi delle note. Solchi che si diramano nel tronco, pronti ad accogliere semi dai quali cresce sofferenza. Quella sofferenza che invece è da sradicare come erbacce dal giardino dei fiori più belli.

Nutrire d’amore, non esserne nutriti. Ecco il mio errore…

“Ci voleva così tanto per capirlo?”

“Sai, questo è il problema. Si sanno le cose. Sappiamo benissimo come comportarci. Ma quando si vivono certe situazioni entriamo in uno stato di cecità. Uno stato che si nutre del suo stesso peccato. Uno stato che sembra stimolare un certo piacere masochistico.”

“Quindi anche tu, sai che è da masochisti soffrire per ciò che succede nel proprio quotidiano. Sai benissimo anche tu, che soffrire per le ferite del passato significa soffrire per l’eternità.”

“Certo, lo so. E questo è il peggio. Sapendolo mi limito ad osservare per non lasciarmi coinvolgere nuovamente, ma improvvisamente mi ritrovo ad essere lì, nuovamente preso…”

Si apre una voragine sotto i miei piedi. Probabilmente già c’era, perché qualcosa d’altro è sotto di me. Si tratta di un corpo morto, che mi trattiene in quell’anfratto.

È un corpo morto dal quale spunta un filo spinato che si attorciglia attorno a me. Sono spire di metallo arrugginito che si fissano al mio ventre, al mio petto. Ogni movimento mi lacera l’anima. Anche solo il guardare, scoppia come un urlo nella testa.

Rallenta il respiro. Si estirpa il filo da quel corpo morto che inesorabile cerca di trascinarmi verso un fondo senza conoscenza… potrebbe anche essere piacevole.

Immobile. Ancora di più rallenta il respiro.

Immobile. Solo gli occhi si chiudono. Solo il pensiero evade e prega.

“Togli il filo!”

“Non ci riesco, fa male.”

“Toglilo! Adesso che non ci sei e che ci sono io.”

“Ma così fa male a te…”

“Meglio a me per un attimo, che a tutti noi per l’eternità.”

Maschere







Un nuovo aspetto, sempre uno sotto molti.

Diverse espressioni, diverse parole, diversi stati d’animo, un solo Dio: Io!

Noi che scriviamo di me, di quel me di una volta che si sentiva solo, di quel me di un’altra volta, sognante su un lontano ramo sospeso sopra un mare di nebbia, di quel me stanco, dolorante, sofferente.

Un Noi pluralis maiestatis, almeno ai nostri occhi.

Ci raccontiamo, ci ascoltiamo e non ci giudichiamo.

Diverse espressioni, diverse parole, diversi stati d’animo, un solo Dio: Io!

Mi ripeto in un'altra volta, come essenza in sequenza, come nuova presenza in uno spazio che è lo stesso di prima, ma che vibra in modo diverso.

Io! Sempre io. Noi! Sempre io.

Ora burattino in balia di qualche altra volta in cui non ho saputo aprire gli occhi. Ora burattinaio, incidente con maestria in ogni minimo battito di ciglia.

Eppure sempre io, sempre noi, senza sosta e senza tregua.

Con o senza carne. Con o senza respiro, ma pur sempre con quell’amore nel cuore che unisce e separa.

Il volo







Dopo aver versato il trascinarsi disperato a carponi, quel trascinarsi senza un motivo apparente, come di inerzia, ecco che riappaiono più chiare le orme.

Dapprima vicine, unite da una diversa pesantezza, stancamente ma con scopo, passi di un ultimo sforzo… poi, pian piano, più nitide, decise e ampie. Sempre più ampie e sempre più profonde, sicure nella rincorsa per prendere il volo, un volo che anch’egli lascia una scia, una traccia ben diversa dal trascinarsi.

Una scia leggera. Un soffio. Un dolce solfeggio.

Difficile non voltarsi a guardare. Difficile resistere al magnetismo di quel vecchio segno di caduta… occorre non poca forza d’ali per non lasciarsi attrarre, per girarsi e riprendere a volare.

Volare, più in fretta, a volersi allontanare da quelle ombre non particolarmente amate, ma che comunque fanno parte della distanza percorsa verso…

Verso cosa?

Si tratta di andare verso qualcosa o semplicemente allontanarsi da un'altra? Si tratta di fuggire o cercare di raggiungere?

No! Di nuovo! Ancora semi di tarassaco che volteggiano per riunirsi a conformare quell’enorme punto di domanda…

Questa volta lo sorvolo. Plano attorno. Risalgo quella rotondità.

Lo guardo senza cercarne comprensione. Anzi mi poso nel suo culmine e mi guardo in giro. Mi rendo conto che in ogni parte posso vedere sia un punto di provenienza che un punto d’arrivo.

Mi rendo conto che ognuno di questi luoghi, è già stato in me guardandolo, ed è già stato attorno a me essendoci stato.

Mi rendo conto.

Guardo in alto le stelle in un cielo azzurro. Stelle che assumono l’intreccio di una bianca realtà a quadretti sulla quale comporre nuovamente piccoli tratti, punti, cerchietti, spazi vuoti.

Tanti spazi vuoti tra l’io ed il sono. E quel grande spazio vuoto che segue, che man mano cerco di coprire ma che non vuole finire mai, anzi sembra nutrirsi proprio dei tentativi di riempirlo.

Parole che frullano, che crescono, che si colorano, si contorcono. Parole che scorrono, che cadono da una rossa morbida reazione, che corrono quasi da sole a ricomporre pensieri, in quell’intreccio di quadretti ancora vuoti.

Pena







Ancora scivolo. Una ennesima volta lungo quella rotondità inasprita dal rifiorire di quegli steli recisi che non vogliono morire, ma anzi rafforzati or anche grigi si ergono.

Giù, a tracciar la via per il dolore a seguire. Giù sino al limite ultimo, a dondolare leggermente indeciso su come sparire. E quando sto per decidere di rimanere è proprio quando sopraggiungo diverso emule.

E il mio peso aumenta. Mi rigonfio a riflettere di più quel riflesso che sottosopra appare.

Scaccio quel peso che precipita senza portare il dolore a sparire con se. Lo lascia lì, in quella scia che scende dalla rotondità, rotta solo da alcuni immobili ostacoli. Una scia che par di lumaca la traccia, ma che evapora con tutto il tempo che trova su quella vecchia pelle.

Dentro tutto cerca di muoversi nell’ovatta della comodità usuale, ma ogni movimento stride, arrossa, come un meccanismo non lubrificato, che si surriscalda e manda l’anomala fiamma al perno, alle pulegge e alle catene, dove tutto, a sua volta, secca a portare avanti quella stupida anomalia.

Per l’urgenza, a bloccare il dilagare di quella spiacevole sensazione stacco alcune spine. Spengo gli interruttori come a spegnere l’audio inadatto di una video…

Va meglio.

… O almeno l’ho creduto…

Tra il quattordici ed il quindici







Tutto quel tempo a ricercare dentro e fuori, osservare, immaginare, pensare. Tempo che sembra eterno. Non sai dire da quando esattamente, non sai dire fino a quando esattamente. Sai solo che sembra non abbia mai fine.

A volte deluso, come quando a certi appuntamenti aspetti e aspetti, e mentre aspetti immagini ora che vada tutto bene, ora che invece qualcosa non vada per il verso dritto… un’altra fregatura, un’altra delusione, così al prossimo ti presenti nuovamente pronto ad accettare il responso, qualunque esso sia, ma non demordi.

Dov’è quello schermo che ti mostra il film che hai scelto? Quello spettacolo che ti coinvolge facendoti girar la testa come ubriaco d’arte?

E continui a ricercare, dentro e fuori, osservare, immaginare e pensare.

Io Sono.

Due parole. Ti fermi. Smetti di cercare, dentro e fuori, di osservare, immaginare e pensare.

Due parole ed è tutto lì, improvviso, con quel tempismo che sceglie il chiodo che sorregge un quadro. Quel quadro che cade nella storia di Novecento, con quel suo suono inconfondibile: Fram!.

Torni però a riappenderlo quel quadro. Lo riappendi sperando che ricada. Il momento della caduta è irripetibile. Una scossa che attira nella tua mente tutto ciò che hai cercato dentro e fuori, che hai osservato, immaginato e pensato.

Ma quello non ricade. Solo in alcuni giorni lo stacchi tu dalla parete, così puoi pulirlo meglio. Ma staccato da quello sfondo non è così bello. Staccarlo e riattaccarlo. Continui a sperare che una volta, improvviso ricada da solo perché anche il nuovo chiodo ha scelto di non sorreggerlo più.

Continui a chiederti cosa l’abbia fatto cadere ed è come sbattere la testa contro quell’enorme punto interrogativo di pietra.

Cade perché deve cadere. Ma non è certo che debba farlo, non è giusto che cada, non è preciso il momento in cui cade.

Che non si può parlare di certo, di giusto e di preciso, come quel P greco che approssimatizza in difetto una cifra come il tre e quattordici, perché dopo il quattordici c’è ancora il centocinquantanove... e non solo, e perché dopo ci sono ancora più di centomila cifre. L’incredibile cifra esatta è lì, da qualche parte tra il quattordici ed il quindici, come a dire che la perfezione non ha importanza, come a dire che tutto è perfetto tranne che la relazione tra le misure di un cerchio, quel cerchio sul quale è costruita la vita stessa.

Io Sono.

Certo, potrebbe anche essere “Io Mangio”, ma non è lo stesso.

“Io sono”

Lo ripeti ad ogni respiro.

“Io”, che riempie i polmoni a far sentire me stesso attorno a questo Io che vivifica ogni cellula. Poi espiri il “sono”, e ti vedi manifestato, realizzato, presente sia dentro che fuori, anche se dentro e fuori forse non sono dove credi che siano.

“Ma chi sono?”

Eh già! Ma “Chi sono?” o forse anche “cosa sono”, o “cosa faccio”…

Ma certo: io sono un pensiero. Un pensiero che nasce per creare ciò che ritiene reale.

Io sono!

Tutta la mia esistenza è lo spazio tra queste due parole. L’io esistenziale che passa allo stato di essere creato.

Allungo il respiro per assistere a questo passaggio, a questa trasmutazione. L’Io in introspezione… il sono in fusione con il tutto, il Sé che li contiene…

“Ma allora io sono il Sé… e se io sono il Sé come pensiero nato per creare, chi è “Io Sono”? E tu chi sei?”

“Tu sei “l’io sono” del Sé, e io sono esattamente chi vuoi che io sia. Sono ciò che hai chiamato e che continui a chiamare.”

“Ma io ti vedo. Non chiaramente ma ti vedo… beh, forse ti immagino più che vederti.”

“Hai detto bene: mi immagini. Ma perché mi immagini con tratti maschili e parli di me al femminile?”

“Ho dovuto rileggermi, hai ragione, parlo di te al femminile in quanto sei una presenza, ma tu sei un essere maschile?”

“Credi ci sia differenza? Una differenza tra maschile e femminile dipende esclusivamente da quale ti può servire al momento. Vuoi una figura materna? Sono femminile. Vuoi una figura paterna? Sono maschile. Vuoi un’amica? Vuoi un amante? Decidi tu…”

Sono io a darle o a dargli una forma. Sono io che immagino l’espressione di un volto nascere da una inusuale profondità di percezione. Sono io ad appesantire questo Essere di esperienze e significati. Per questo lo ricopro di saggezza, di amore e discernimento. Lo posso riempire di ciò che voglio.

“Sei un Essere buono comunque…”

“Sono buono perché è così che mi vuoi; posso anche essere cattivo, ma probabilmente lì non ti piacerei proprio…”

Sii la luce







Ancora vicina, silenziosa. Gli occhi puntati sempre nei miei, anzi sembrano fusi in essi come il riflesso nell’acqua mentre il viso ne trapassa la superficie. Oppure fusi come quella nebbia, che seppur con un po’ di fatica, riesce ad attraversare le fronde cinguettanti della sentinella prima dell’orizzonte straniero.

“L’alba! Sii la luce del mio ritorno.”

Lascio che quest’alba si illumini in me, che torni ad emanare una di quelle volte piacevoli e chiare, dove tutto ha un senso che non importa quale. Tutto semplicemente rinasce in una semplice complessità coerente, come volta molteplice di unificazione con il resto.

Le gocce di quel riflesso e di quell’umida nebbia, scivolano a prendere nuovamente posto accanto a me in sala comando, mentre mi immergo nell’idea di un caffè come rito iniziatico per la nuova giornata.

Come una preghiera il rituale a disporre un segno d’amore e di rispetto, ma soprattutto di ringraziamento. Il buongiorno a mia madre è pronto in attesa del suo risveglio.

Presente nel mio Sé posso misurare ogni gesto, riempiendolo di una sacralità che potrebbe sembrare vana.

Non penso alle altre volte. Anche il sacco di iuta a maglia larga è abbandonato non so neppure dove. Abbandonato con il suo carico. Smarrito fino alla prossima improvvisa riapparizione. Non mi interessa saperlo, dimentico delle altre volte… questa volta è questa volta.

Torno a far ordine tra quelle idee sperdute negli universi a quadretti, dove varie grafie sussurrano brama, impazienza, studio, curiosità, bastonate, assenza di gravità.

Anche se reali nella scrittura, fulminate nella mente in quegli attimi, incise come ferite nella carne, nel cuore e nell’anima, nella lettura e nella catalogazione sono fredde e staccate, quasi non mie.

“Va bene se riordino?”

Puoi fare tutto quello che vuoi, non c’è limite alla tua libertà. Le cose che ti servono sono già tutte lì, fai la tua scelta. Va benissimo qualsiasi cosa che scegli di fare e di sperimentare.”

Mi soffermo su parole quasi  illeggibili, sciolte dall’umore salato dei miei occhi di un’altra volta.

Da dove arriva la tristezza, la sofferenza emotiva?”

Dall’illusione di subire le cose, ma a volte anche semplicemente dal volerle sperimentare e basta.”

“Mi sento bene ascoltandoti, le cose che mi dici sono molto chiare, dolci e profonde.”

“Sei tu che dici queste cose.”

“No… no… Io non le sapevo.”

“Certo che le sai, da sempre! Le avevi solo dimenticate.”

Confuso, incredulo, di nuovo in equilibrio, sorretto solo dal sibilo degli emisferi… appoggiato a quella sfera di roccia galleggiante mentre nuovamente osservo verso l’alto la curva che rende domanda ciò che mi aspettavo risposta. Quelle tante domande, nuovamente unite a dare un peso incredibilmente insopportabile a quella particolare domanda che non vuole uscire, che non vuole essere detta.

Non potendo trattenere oltre quel respiro prigioniero negli alveoli continuo….

“No… sei tu che me le stai dicendo.”

“Al tuo posto non ne sarei molto sicuro.”

“Perché? Stai forse dicendo che mi sto immaginando tutto?”

“Se così fosse? Sarebbero queste esperienze prive di significato?”

“Come posso sapere?”

“Prendi una capra, vai sul monte, sgozzala e sacrificala in mio nome su di una pira di alloro.”

“Dici sul serio?”

“…”

Sorrido, anzi, rido per questa mia stupida domanda…

“Fede! Abbi fede in te prima di tutto. Se non hai fede in te in cosa potresti mai credere?”

A volte







Ancora quella meraviglia, la meraviglia di essere ancora qui. Ancora o di nuovo? Meraviglia o sorpresa? Forse di tutto entrambe. Ma è veramente meraviglia o sorpresa?

A volte ha l’aspro sapore dell’accettazione.

Si presenta con un leggero tono di patimento, la punizione di una colpa non ancora riconosciuta.

Si presenta con il colore della nostalgia di un’altra aria più secca, più calda… più amabile malgrado quelle lance appuntite di menzogne, che ancora, a periodi, come di tempesta lacerano l’anima a volersi spogliare del corpo, un’anima che piange amareggiata, che sussurra rabbia e delusione: “Via, fuori da questa misera e stupida apparenza! Lasciami andare via, foss’anche per l’eternità…”

A volte, ha un che di nuovo e di gioioso che guizza nel turbinio dell’aurora, di pensieri indaffarati a riporsi in abbaglianti presenti immaginari, presenti che ritonfano, però, nell’usuale presenza di una gravità sentita e provata, non appena subentra l’interferenza di un ricordo.

A volte sprofonda in un punto di visuale ristretto, angusto, buio come il terrore di un pensiero di solitudine, pronto ad isolarti in tutto ciò che non esiste più, che non ha neppure la sensazione della sua nullità.

A volte urla senza sosta, quell’orribile urlo di terrore che lascia sbiadire il circolare di Munch, incatenato nel suo stesso orrore, in quella cornice da cui non c’è via d’uscita… tranne un ennesimo salto nel vuoto…

Oggi si salva nell’accettazione.

Trascinando sul pavimento le altre volte in un sacco di iuta dalla maglia larga, dove riesco a vedere gli occhi delle altre volte, che mi guardano e mi supplicano di lasciarle uscire, lusingandomi della loro necessità di essere altre volte.

“Da giorni mi osservi senza proferir parola.”

“Cosa vuoi che ti dica? Stai già dicendo tutto tu. Io ti seguo, guardo da vicino nei tuoi occhi per capire se esiste differenza tra ciò che riflettono oggi e ciò che hanno riflesso l’altro giorno, o che rifletteranno domani.”

“Ciò che vedi significa essere umano. Alti e bassi spesso senza apparente motivo, ma già, tu probabilmente non te ne rendi conto…”

“Perché? Tu si?”

Il miracolo della vita

(picture by Beatrice Bulteaux)


Silenzio assoluto. Taccio perché non so come cominciare, non so dove inizia e se mai ha una fine, non so se ha, se è … se cosa né dove o come…

“Wow! Cos’era questo? Non so neppure se riesco a descriverlo.”

“Non puoi infatti.”

“Ma io vorrei raccontarlo a qualcuno…”

“Ti ho già detto che non puoi, la vita è troppo breve per descrivere l’eternità.”

“…ancora, ti prego…”

“No! Ti perderesti nel tutto …perderesti l’attimo. Devi riuscire a vedere quella meraviglia in tutte le piccole cose, nel vuoto di quelle piccole cose che rispecchiano la pienezza delle grandi. Quella meraviglia che devi descrivere è visibile solo lì, dove risiediamo adesso insieme.”

Guarda, semplicemente guarda







Seguo con l’occhio il contorno della collina; quel taglio tra il cielo e le fronde degli alberi del bosco. Come può non colpire quello spazio che dà l’impressione di formare una cornice attorno a quell’albero solitario, imponente e forse magico.

In certi giorni grigi assume l’aspetto di una fotografia, scattata da un occhio esperto che sa evidenziare i diversi strati di pallore.

Il cielo chiaro, poi l’altra collina straniera che pone una prima dimensione di sfondo. Davanti a questa una leggera nebbia pronta ad esplodere verso il primo piano attraverso quello spazio, attorno a quell’albero solitario che se ne sta ritto, immobile ed in silenzio, sentinella di un’avanzata d’oltre confine, guardia che non saprebbe mai arrestare l’invasione, ma che incute comunque rispetto e ammirazione per il suo semplice stare lì, orgoglioso della sua possenza ma nel contempo civettuolo a mostrare la sua chioma probabilmente brulicante di cinguettii.

L’avventura







La netta sensazione di seguire con un lieve ritardo ogni movimento del corpo, per poi ricongiungermi a lui quando si arresta, questa sensazione di seguire…a meno che non mi lascio espressamente trasportare, o non accompagno volontariamente lo spostarsi di membra che, come nuova esperienza, vengono usati.

“Dove sto andando? Fermati! Torna qui. Aspetta che ti raggiungo.” Impossibile realizzare cosa o chi stia parlando a chi o a cosa. Frastornato. Decisamente “fuori di me”.

Riprovo.

“Non così veloce, ti ho di nuovo perso. Vediamo di farlo insieme.”

“Un passo, lentamente. Un altro passo, lentamente. Alza il braccio. No, non quello! Quell’altro.”

Di nuovo in sintonia, ma stavolta rendendomene conto.

Di novo in sintonia, sapendolo e gioendo per questo accordo tra il vero me e … me.

Di nuovo in sintonia, come dopo l’annebbiamento che seguiva una di quelle sbronze colossali con il gigante buono. Quel gigante che rideva, malgrado il suo cuore fosse colmo di dolori, di paure, di risentimento per quella mortale burla di un irrispettoso falso amore.

Il pensiero ora presente sull’affanno di chi paga anche con l’anima per uscire dalla sintonia, per poi star male quando tornano… di nuovo in questa. Che abbiano ragione a soffrire di uno stato considerato normale?

È bello sentirsi regnare in tutti i sensi sul proprio essere. Prendere posto in sala comandi e dirigere, o meglio assistere un traffico che si muove in modo automatico.

Bello questo regno incontrastato.

Anche se a tratti una breve disattenzione lo porta fuori dal mio controllo, riesco subito ad essere di nuovo in sintonia, dirigo, osservo, godo.

Godo di quel vuoto, che improvvisamente torna ad essere riempito dalla dolce presenza che mi ha accompagnato nella breve eternità di una notte.

“No, ti sbagli, non sto coprendo il vuoto: io sono il vuoto. È nel vuoto che trovi le cose più belle e più grandi, altrimenti non ci sarebbe spazio a sufficienza, non avresti la possibilità di entrarci, non saresti libero dei bagagli pesanti che ti ostini a portarti appresso”.

“Ma …un attimo fa non c’eri!?”

“Non dire che non c’ero. Eri tu che stavi riempiendo “il vuoto” con cose ancora più vuote, con il tuo pensiero della sintonia. Eri tu che mi schiacciavi ora sotto la difficoltà di un passo, ora dietro un seppur dolce ricordo di quei due occhi grigi, che portavano a spasso un angelo attorno a loro… oppure ancora dietro illusioni di mondi sintetici, che appartengono a quell’altra illusione che chiami naturale…”

Improvvisamente allibito, meravigliato davanti ad un gigantesco punto di domanda scolpito in una ruvida roccia.

Cerco di abbracciare quell’enorme sfera che galleggia davanti a me, e che tiene sospeso imponente il completamento della sua rappresentazione.

Solitamente è la risposta che non si sa, per questo si chiede, Ma qui invece è la domanda stessa che assume una sproporzione tale da oscurare tutte le altre domande, anzi, quasi sembra pronta ad abbattersi inesorabile su qualsiasi risposta, per schiacciarla nella sua inutilità.

Non resta che abbracciarla.

Quella enorme sfera non si lascia abbracciare, ma forse sono le mie braccia troppo corte per far questo.

“Perché non riesco?”

“Perché stai partendo dal punto che credi sia te, se invece quel punto lo centri dentrodi te, vedi in modo diverso tutto ciò che ora credi di avere attorno.

Non sono le tue braccia a doverla abbracciare, bensì la tua mente.

Se continui a guardare così, in avanti, avrai sempre un dietro nel lato opposto, perderesti la visione sul sopra e sul sotto. Lascia che tutto entri in te, e sì che lo hai anche già scritto che non si può dire se dentro sia dentro o se sia fuori… o chissà dove…

A volte mi preoccupi. Sembra che hai afferrato le cose e poi torni ad esprimerti come se non le avessi capite. Lo sai benissimo che non esiste nessun luogo e nessun tempo.”

Come fiamma di un cannello cui chiudi la valvola, mi ritiro da quella euforia invisibile ma potente, e mi ritrovo misera fiammella azzurra arancio in balia di ogni piccolo, misero soffio.

“Dobbiamo andare nel cuore?” – sussurro timido pensando al caldo rifugio di quel sentimento d’amore, che colora gli istanti di piacevoli toni pastello.

“Non puoi chiedermi di andare nel cuore, ci siamo già. Se lasci che tutto entri in te, sei ovunque in qualsiasi istante.”

Ma io sono pur sempre umano, uso ancora un metro ed un orologio, ho una madre, una sorella e una nipote… un fratello con la sua amata moglie. Sono in questo luogo in questo adesso, forse la mia mente non è ancora pronta per realizzare, per partorire certe idee…

“È il mio Qui ed il mio Ora…” – ribadisco – “…mi spiace. Tu hai esperienza di questo miomondo? Sei già stato umano?”

“La mia risposta cambierebbe la tua opinione? Cambierebbe la tua prossima domanda?”

In un vortice, quasi un sibilo, quel gigantesco punto di domanda rotea su se stesso e si disgrega, lasciando morbidamente cadere al suolo molti altri punti di domanda. Volteggiano, simili a vuoti tutù di velo grigio, come frutti di tarassaco che non hanno fretta di trovare il luogo adatto, dove depositarsi in attesa che cresca, vigorosa, una nuova giusta domanda.

La visita

(by Massimo Enzo Grandi)








No. Non dormo.

Anche se coricato senza saperne il vero motivo, sono sveglio.

Gli occhi chiusi a fissare il nulla. La mente che lascia sciogliere i pensieri come ghiaccio al sole, pensieri che svaniscono, piano piano, lasciando spazio al vuoto.

Un lampo dietro le palpebre. Rimango in attesa di sentire il tuono, che però non arriva.

Apro gli occhi e accanto a me, grigia, ma ancora un po’ scintillante della sua irrealtà, quella presenza dalle fattezze indefinite, pronta ad assumere i tratti che credo riconoscere in essa, a completarsi con i colori che i miei occhi definiscono stimolati dall’emozione. Una presenza pronta a parlarmi, con quel suono che non vibra nei timpani e che non viene battuto tra incudine e martello, che non ha bisogno di una staffa in cui versare la colata per dar forma al significato che contiene.

Mentre silenziosi i dolori rimangono presenti solo nella carne e non nella mente – a darmi così un senso di apparente sollievo, ma aspettando comunque di attrarre nuovamente il mio corpo nella trappola mortale dell’illusione – richiudo gli occhi ritrovandola presente in quello schermo solitamente buio, in un punto che non segue la mia pupilla che scivola dietro le palpebre, ma rimane fisso in quella incredibile dimensione, dove rivolgo la mia esternazione.

“Grazie” – sussurro piano in quell’ora della notte.

“Grazie anche a te, che mi lasci entrare”

Posso sentire le pupille dentro l’umidità che provo, mentre io stesso divengo alcune lacrime di commozione, ma non è ciò che volevo, e mi sposto su uno dei raggi che partono dal cuore, quello che giunge poco sopra gli occhi.

Sospeso come a mezz’aria tra vari me, differenti solo per interpretazione, mi abbandono a quella piacevole molteplicità. Mi soffermo proprio lì, come quei sibili leggermente dissonanti, che risuonano con inaudita continuità tra il mio pensiero destro ed il sinistro; sembra mi tengano in equilibrio sull’orlo di un’idea di pazzia, anzi, forse sono forse proprio loro che mi permettono di gravitare sopra la mia coscienza.

Un nuovo lampo e la figura sembra perdere un poco della seppur effimera consistenza. Assisto senza sapere cosa stia succedendo e senza farmene un quesito.

Ancora un lampo, e un altro, e un altro.

Se prima era quasi solo un’ombra, ora è quasi solo uno spazio rimasto intriso della sua precedente presenza, uno spazio che denota comunque l’assenza di quella figura.

“Non andartene, ti prego. Concedimi questa tua piacevole presenza.”

“Non me ne sto andando, tutt’altro! Sto prendendo posto con te nel tuo osservatorio.”

Posso chiaramente sentire questa presenza “estranea” espandersi piacevolmente nel mio corpo consapevole, quasi proprio come il liquido di contrasto per fare una Tac ti entra in circolo, permettendoti di percepire parti del tuo essere che neppure immaginavi di avere.

“Ti sento!”

“… un brivido lungo la schiena…” sento aleggiare come risposa scanzonata.

“Vorrei stringerti, ma mi rendo conto che non posso.”

“Sciocco che sei! Non ti basta contenermi? Non ti basta fonderti con me?”

Trascorriamo insieme quel poco che rimane della notte, lasciando che intanto il mio corpo riposi quasi immobile in quel drappo di menta nato dal cuore di un gigante buono.

La nostra trasparenza si sta facendo via via più intensa e permette di intravedere il risveglio dei vecchi ricordi rinchiusi ancora in scatole e casse, in attesa di essere riesumati.

Un lieve formicolio, una vibrazione, l’effetto di un alito strappato dietro la nuca, e la forma riflette uno sguardo dolcissimo abbracciato al mio fianco.

Nel risveglio del fisico non riesco a trattenere la sua evanescenza.

Ciò che sembra la sua mano si protrae verso me…

“Se ti lascio andare mi sveglio…” sussurra con una nota dispiaciuta, ma sono io che mi risveglio, o forse che mi riaddormento.